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Un insegnante della scuola Media "Alberto da Giussano" alla Maratona di New York

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UNA GIORNATA INDIMENTICABILE.

Le luci dei grattacieli  che attorniano l’hotel Sheraton filtrano oltre le tendine e anticipano la sveglia di qualche minuto. Provengono dagli uffici, sono perennemente accese, ma  all’interno delle ampie vetrate non si scorge nessuno; chissà mai perché non le spengono, forse per un effetto scenico, forse per rendere i grattacieli ben visibili alla navigazione aerea. O forse perché vi è sempre un “fantozzi” nascosto tra il labirinto di scrivanie che lavora alacremente anche di notte. Sono le quattro del mattino a New York ma nonostante le 5 ore scarse di sonno, mi sveglio lucido, pronto per eseguire tutto il programma della giornata che avevo già stampato in mente. No, non è colpa delle luci, dico tra me e me. Qui è l’adrenalina che è salita, e migliora i livelli attentivi del corpo per far fronte ad impegni decisamente importanti come questo. Niente deve essere lasciato al caso in questo giorno sognato ad occhi aperti da anni, da quando, ancora giovane, mi ero messo in testa di partecipare alla maratona di New York. E già…proprio la maratona di New York, la più classica delle gare su questa distanza. E’ ancora buio quando esco dall’hotel e il vento gelido  spazza la 7th Avenue contrastando i vapori caldi che escono dai tombini. Nessuna abitazione qui a Manatthan è provvista di riscaldamenti autonomi. Hanno costruito delle enormi caldaie ai piedi dell’East River, il fiume che scorre ad est dell’isola, e il vapore viene portato, attraverso una rete sotterranea, a tutte le abitazioni che così vengono riscaldate. Al di là della strada, l’unica caffetteria aperta a quell’ora; un cameriere, vista la mia indecisione, mi fa cenno di entrare, così mi avvio, attraverso la strada ed entro. Per fortuna sono il secondo avventore della giornata, così ordino in tranquillità: 2 uova con bacon e patate cotte alla piastra. Più un orange juice per mandare giù il tutto. Quando finisco sono già le cinque e il locale pullula di ogni maratoneta proveniente dagli angoli più reconditi della Terra. Australiani, Neozelandesi, Sudafricani, Brasiliani e gli immancabili…..Italiani. Con i nostri 2000 partecipanti siamo il secondo gruppo più folto, secondi solo ai Francesi. Mi son detto:” questa colazione è ricca ed abbondante, ma partendo alle 10.05 con il secondo gruppo di partecipanti, l’avrò bella che digerita alle 8.00. E poi? E se questo carburante non è sufficiente per correre tutti i 42 km e 250 metri?” Mi ritornano in mente le parole del mio massaggiatore che da buon maratoneta ed esperto di New York, avendo già gareggiato qui per ben 3 volte, mi disse: “Marco, non aspettare che arrivi la fame, perché quando sei a quel punto già sei in carenza di zuccheri. Mangia quando non hai fame”.Bene. Ben detto. Meglio essere previdenti. Compro 2 banane e una scatola di frutta secca; più una scatola di pocket coffee che avevo preso in Italia e che metto all’interno di un piccolo marsupio legato con una cinta in vita. Esco fuori; ad attenderci una decina di bus in doppia fila. Salgo sul mio, direzione Battery park, dove ci si imbarcherà per Staten Island, uno dei cinque quartieri di New York, insieme a Brooklyn, Queens, Bronx e Manhattan. Il giorno prima ero stato alla conferenza stampa tenuta, proprio all’interno dello Sheraton, da Orlando Pizzolato, vincitore di due edizioni consecutive della maratona di New York. “Ragazzi” esordì, “domani farà molto freddo e ci sarà forte vento, quindi copritevi perché, arrivati alla partenza, dovrete attendere per più di due ore prima che venga dato il via. Una volta percorso il ponte di Verrazzano potete buttare via gli indumenti. Cercate di fare tutti i rifornimenti per evitare la disidratazione e, soprattutto, non partite forti, perché poi si paga alla fine”. A Battery park abbiamo il primo sbarramento di poliziotti con tanto di cani che annusano dentro le nostre sacche piene di indumenti, non so se in cerca di esplosivo o di droghe, ma suppongo per ambedue i casi. Dentro il battello c’è chi, come me, è in religioso silenzio, chi muove nervosamente le gambe, chi, alzatosi in piedi, scatta foto alla Statua della Libertà, che sfioriamo alla nostra destra. A Staten Island ci accoglie un freddo polare e la distanza che ci separa dai bus pronti al lato della strada per portarci nel luogo di partenza, appare interminabile. Così dentro il bus aggiungo altri strati alla mia cipolla di vestiti: maglia termica a contatto con la pelle, tuta aderente, altra felpa sopra. Poi un vecchio pile ed infine una giacca a vento provvidenziale. Due berretti mi coprono il capo; uno di pile e un altro che di solito uso nelle escursioni di alta montagna. Le gambe sono coperte da una tuta aderente ed un’altra vecchia da lavoro. Solo ai piedi ho un paio di calzini ed infatti…….. partirò con i piedi gelati. Qui a Staten Island si sente ancora l’atmosfera della festa di Halloween. I giardini dirimpetto alle case sono folkloristicamente addobbati con streghe e mostri gonfiabili di ogni genere. All’uscita dei bus, altro sbarramento di poliziotti; questa volta ci passano al setaccio con il metal detector. Finalmente camminiamo verso il punto di partenza. Lungo il viale mi ferma un italiano di Pescara; mi riconosce dalla giacca a vento. E’ leggermente spaesato e, non conoscendo l’inglese, non sa dove dirigersi. Non lo so neanche io, però ci sono delle ragazze dell’organizzazione con  in mano un cartello circolare, tipo paletta della polizia solo un po’ più grande, con la scritta “Ask me” chiedi a me. Mi avvicino e chiedo dove è la nostra zona, visto che siamo stati divisi per colori. La mia e del signore è la zona green, verde. Arrivato! Sono circa le 7.30. Devo aspettare altre 2 ore e 30’ alla partenza. Cerco un posto riparato dal vento, ma i migliori, dietro gli enormi camion che raccolgono le sacche per portarle all’arrivo, se li sono già presi i maratoneti arrivati prima. Mi siedo su un prato e cerco di assumere una posizione la più rannicchiata possibile, gambe incrociate all’indiana e busto flesso in avanti, per non disperdere calore. Invidio delle signore tedesche che, dietro di me,  attrezzate con una coperta in plastica adagiata a terra, sono sedute su scatole di cartone. Devono aver capito il mio disagio nell’essere seduto a contatto con l’erba, tant’è che mi invitano a sedermi con loro. Accetto volentieri. Tutti siamo coperti fino all’inverosimile, tranne qualcuno che deve aver sottovalutato le previsioni meteo o magari ha sopravvalutato le proprie capacità di adattamento al freddo. Passa davanti ai miei occhi un ragazzo in pantaloncini e felpina; il viso bianco carta, le braccia conserte con il busto leggermente piegato in avanti. Trema dalla testa ai piedi in maniera incontrollata. Qualcuno invece ostenta sicurezza: seduti in braghette chiacchierano come se il freddo polare non li disturbasse affatto. Mi son detto. “saranno concorrenti provenienti dall’Alaska o norvegesi di Capo Nord”. Ad un tratto, sempre per il fatto che ho la giacca a vento fornita dal tour operator italiano, si siede accanto a me un pisano, tale Evaldo, il che mi induce a dirgli che forse era stato un problema per i suoi genitori scegliere tra Eva ed Aldo. Si mette a ridere, ma il discorso scivola inesorabilmente sulla gara. C’è una costante che accomuna tutti i  maratoneti “tapascioni” come me, nei discorsi chiamiamoli così pre-gara. Tutti e dico tutti, forse per esorcizzare la paura sempre presente di non arrivare al traguardo, hanno un motivo per giustificare il fatto che oggi non faranno la gara per la quale si sono allenati. In poche parole hanno una scusa per dire che oggi non è la giornata adatta per fare il tempo, a livello cronometrico si intende. Un po’ come, ai tempi universitari, nel giorno degli esami, si dice a chi aspetta di entrare per sostenere l’interrogazione, che non si è studiato a sufficienza e che sicuramente andrà male. Per poi uscire raggianti con il sorriso a 36 denti. C’è chi dice che a lui fare il tempo oggi non interessa, perché si vuole godere la corsa e il paesaggio; c’è chi è alla prima maratona e non sa se arriva al traguardo. Evaldo dice che corre da anni per mangiare; ossia la corsa gli serve per sgarrare a tavola. Ed io? Anche io non mi sottraggo alla regola dell’autocommiserazione. Mi sono allenato per 3 mesi con grande costanza, senza saltare alcun allenamento; mi sono alimentato bene; ho fatto i 30 km in 2h e 35’ e poi? Poi il patatrack. Durante un allenamento in collina, una tapasciata in provincia di Lecco, sento una fitta al polpaccio. Per fortuna il week end successivo sono nelle Marche e il massaggiatore mi dice che il polpaccio non c’entra niente. E’ una lombo-sciatalgia. Non so se essere più contento, fatto sta che dopo una settimana di riposo ricomincio gli allenamenti; salto il lungo di 35 km, faccio quello da 25 km e da 20 km. Poi di nuovo stop per sciatica, ma siamo troppo vicini alla maratona, sciatica o non sciatica voglio assolutamente partecipare. Decido di fare le iniezioni per ridurre l’infiammazione e, oltre a queste, 300 addominali  e 1 ora di posturale tutti i giorni. Abbinare gli antinfiammatori allo stretching lombare e al rafforzamento della parete addominale sembra funzionare; a poco a poco il cavo popliteo dietro al ginocchio smette di dolere, il bacino e la zona lombare, a forza di retroversioni, sembrano riallinearsi. Insomma ricomincio a correre senza forzare. Siamo ad una settimana dalla gara. Ora, quatta quatta, arriva la paura di non farcela a percorrere quei 42 km; mi domando perplesso come posso farcela se a mala pena riesco a finire 10 km. In aggiunta, affievolito di molto il dolore dietro al ginocchio, sembravano ne iniziassero altri a catena: una leggera fascite plantare, poi una leggera contrattura al vasto mediale del quadricipite destro. Insomma tutto sembrava mettersi contro, soprattutto infieriva sull’aspetto psicologico e sul morale. Con molta pazienza mi automassaggio il piede usando anche una pallina di gomma e cerco di ridurre la contrattura alla coscia con creme e massaggi.” Ce la devo fare, e ce la farò” mi dissi. Sono le nove, manca ancora un’ora alla partenza. Ingoio le 2 banane e la frutta secca che mi ero portato, mentre metto i 5 pocket coffee nel taschino della cinta. Mi serviranno per la gara. Incomincia a salire la tensione, gli altoparlanti annunciano che bisogna andare ai corral, i cancelli da cui si partirà per arrivare camminando al ponte di Verrazzano. Intanto alle 9.40 partono i professionisti e la prima ondata; li salutiamo con grandi uuuhhh all’americana. Ora tocca a me. Rimbomba il cannone. E’ il via alla mia maratona!! Accompagnati dalla musica di New York New York di Frank Sinatra, ci avviamo sul ponte di Verrazzano. Inizia la gara e inizia subito la salita. I muscoli sono intorpiditi dal freddo. Ho tolto gli strati più esterni della mia cipolla di vestiti. Ma sul ponte ci sono raffiche di vento che ci colpiscono sul lato sinistro del corpo a 50 km all’ora e ci spostano di mezzo metro a destra. Bè, per fortuna che non ce lo troviamo dirimpetto, altrimenti avremmo percorso i circa mille metri del ponte in mezz’ora. Ad un certo punto mentre affronto la salita sento una piccatina al solito quadricipite destro. “Oh no” mi dico. “fa Signore che non sia niente”. Mi metto a pregare. “Se mi aumenta e si riacutizza il dolore qui dopo neanche 500 metri di corsa è la fine, sono costretto al ritiro” dico tra me e me. Rallento al massimo. Passetti corti e veloci, la scarpa incollata al cemento della strada per evitare qualsiasi minimo balzo. Passo il ponte indenne ed entro a Brooklyn. Dopo una ventina di minuti la coscia sembra non fare più male ma per precauzione mantengo lo stesso ritmo. “Chi se ne frega del tempo” mi dico. “Voglio arrivare al traguardo”. Entriamo in un viale alberato bellissimo, con ai lati tutte casette a mattoncini rosso scuro. Le classiche casette americane con un piccolo giardino dirimpetto, 5 o 6 scalini per arrivare all’ingresso principale. Le scale metalliche antincendio a vista. Ma soprattutto una folla entusiasta ci aspetta e si accalca ai lati della strada con un tifo commovente. Commovente perché indirizzato a degli sconosciuti come me. Passo vicino a loro ai bordi della strada come per cercare il loro affettuoso abbraccio. C’è chi espone dei cartoni con la scritta:” Touch here for to have more power!” che tradotto vuol dire “Tocca qui per avere più energia, più forza”. In poche parole “Dai un 5”. Incredibile l’entusiasmo di quella gente, così coinvolgente da farmi passare tutte le paure. Ad ogni angolo della strada spuntano piccole bande musicali; davanti ad una chiesa gente di colore ci regala canti gospel. Il pubblico fa della manifestazione sportiva una grande festa. Rimango allibito del grande entusiasmo che trasmettono. Ogni tot metri qualcuno, vedendomi correre con la scritta sulla maglietta ITALIA, mi incita: “go Italia, Vai Italia, Forza Italia (ma la politica non c’entra), andiamo Italia. Ad un certo punto, mentre passo accanto al marciapiede, si leva una voce di donna con chiaro accento americano. Mi urla: vai Italia!. Di solito alle decine di incitazioni rispondo alzando il pollice della mano destra in segno di ringraziamento e per dire che è tutto ok. Ma questa volta vengo catturato da quella voce soave e mi giro per vedere incuriosito il volto di quella donna. E’ bionda, alta, un viso da attrice, bellissima. Mi sorride. Per un attimo ho la tentazione di tornare indietro e stamparle un bacio sulla guancia. Le sorrido, la saluto con la mano aperta e proseguo. Ma un po’ di magone dentro mi resta. Arrivo al 21 km in 2h e 07’. Troppo lento, ma mi sono fermato due volte ai bagni posti lungo il percorso e lì ho perso almeno 5’. Troppo lento lo stesso. Paradossalmente mi sento fresco e mi dico: “ok sei andato piano, hai preservato le energie per la seconda parte”…”ora non mollare”. Non mi accorgo di aver attraversato i Queens solo se non per un cartello tenuto in mano da un signore con la scritta:”benvenuti nei Queens”. Siamo al 25 km e mi accingo ad attraversare il ponte che ci porta a Manhattan; un ponte dalla salita interminabile. Molti corridori si fermano al lato del ponte per fare le foto allo skyline, la linea di grattacieli che si stagliano al di là dell’East River. Io proseguo imperterrito con il mio passo. Finalmente arrivo a Manhattan e un lungo viale alberato tutto in leggera salita ci indica la strada verso il Bronx, quartiere che non eccelle per buona fama, a nord di New York. Arrivo al 30esimo km  intorno alle 3h, ritmo regolare, non ho perso terreno ma, si sa, qui inizia il mitico muro del maratoneta, dove la maggior parte degli atleti entrano in crisi, o perché hanno corso troppo forte la prima parte o, aggiungo, anche perché hanno terminato il carburante. Io invece mi sento bene, ai rifornimenti ho bevuto gatorade ed acqua e ho mangiato tutti e 5 i pocket coffee che avevo conservato nel marsupio. Non mollo di un millimetro il mio passo. Comunque è uscito il sole preannunciato e, anche se la temperatura si mantiene rigida, il tepore dei raggi si fanno sentire. Appena superato il 30 km scorgo una sagoma a me familiare. E’ Evaldo che arranca sulla salita che porta al Bronx. Lo affianco e con il fiato rimasto e il dito indice che si muove a mò di tergicristallo, gli urlo: “non mi prendi più”. Ripetuto due volte.  Un po’ come il nostro presidente Sandro Pertini alla finale mondiale di calcio tra Italia e Germania del 1982, al gol del 3 a 1 di Altobelli, scattò in piedi e esclamò: “non ci prendono più, non ci prendono più!”. Al 35 km ho già passato il Bronx e percorro il lungo e grande viale che in discesa ci porta verso Central Park. Non perdo un secondo anzi, acquisto qualche minuto rispetto al previsto. Due ali di folla fanno un tifo incredibile. Supero una marea di concorrenti che sono letteralmente cotti. Arrivo dentro Central Park; guardo l’orologio; sono a 3h e 45’ e maledico i passaggi scritti in miglia che non mi danno l’esatta percezione di quanto mi rimane da percorrere. Finalmente la scritta: 40 km. La passo in 3h e 57’. Non farò più il tempo sotto le quattro ore come mi ero prefissato ma poco importa. Gli ultimi due km sono veramente duri ed interminabili. Le urla di incitamento della gente mi incominciano a dare fastidio per cui mi faccio al  centro della strada e cerco di isolarmi da tutto il mondo. Ma dove c…. è il traguardo! Impreco. Ultimi 400 metri. Finalmente lo scorgo in lontananza. La smorfia di dolore si tramuta in un sorriso. E’ fatta!! Taglio il traguardo con le braccia al cielo. Bellissima maratona. Stupenda per tutto. Al di là della finish line ci danno una coperta termica. C’è chi ha i crampi, c’è chi vomita per lo sforzo sostenuto. A me vien da piangere ma mi trattengo. Davanti a me un signore sulla 75ina. Sulla guancia ha tatuato la bandiera francese. Non conosco il francese ma mi vien da dirgli:”Compliment” e gli dò la mano. Una persona da emulare affermo tra me e me. Mentre insieme al lungo fiume di corridori esco lentamente da Central Park all’interno dei miei occhi scorre la pellicola della corsa. Evviva la maratona! Evviva la vita! 

Ps: Evaldo è arrivato 23’ dopo di me….ma è arrivato.
PPs: per tornare a piedi in hotel ho fatto altri 6 km ma mi è servito per smaltire l’acido lattico!!